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PERCHE’ E’ NECESSARIA LA PETIZIONE PER IL RIPRISTINO DELLA CATEGORIA UNDER 21

 

Il 2018 è stato un anno di grandi cambiamenti in Fijlkam, l’adeguamento alle categorie WKF ha di fatto rimescolato le carte del kata, ma soprattutto del kumite, in maniera esponenziale, fra variazioni di peso e di età, la modifica più discussa è senza dubbio quella dell’accorpamento dei ragazzi e delle ragazze alla categoria Senior a partire dall’anno di nascita 2000, con conseguente abolizione della categoria Under 21.

Ciò sta creando non poche discussioni in seno alle varie associazioni che però, lavorando su un campo ben più ampio di quello del professionismo, hanno assunto tutte la medesima posizione: la categoria Under 21 va ripristinata e vi spieghiamo subito perché:

  1. RISCHIO DROP OUT: Un atleta per quanto bravo, cintura marrone o nera che sia, deve avere il tempo di maturare, sia fisicamente che mentalmente e buttarlo a 17 anni in una situazione così eterogenea come la categoria senior, insieme ad atleti professionisti o comunque molto più maturi, porterebbe quasi sicuramente a demotivazione e abbandono, considerando anche che nel Karate non esiste specializzazione precoce e quindi ci si affaccia all’agonismo verso gli 11/12 anni, solo 5 anni di pratica da tale punto di vista.
  2. RISCHIO FUORIUSCITA SOCIETA’ A BENEFICIO DI ALTRE “FEDERAZIONI”: molte società potrebbero soffrire di eventuali drop out delle categorie superiori e scegliere di orientarsi verso altre realtà che magari proprio per incamerare più iscritti potrebbero pubblicizzare maggiormente ciò che alla Federazione sta mancando in questo momento.
  3. COMPLICAZIONI PER LE CONVOCAZIONI NAZIONALI UNDER 21: in Italia ora non c’è, ma nel resto del mondo sì, quindi su quale categoria bisognerebbe orientarsi per le convocazioni della nazionale Under 21 qualora i podi della categoria Senior dovessero essere formati per intero da atleti di età superiore?
  4. DIFFICOLTA’ PER I CONCORSI PUBBLICI: inutile negarlo, i titoli fanno comodo, sia a chi voglia tentare l’entrata nel professionismo, sia a chi semplicemente desidera avere punteggi più alti per tentare la carriera militare. In tal modo si negherebbe a ragazzi non ancora diplomati al momento dell’entrata nella senior di fare podi o entrare nei primi 6 classificati, maturando punteggio utile a tali scopi.

Per tutti questi motivi, come Società affiliata e con diritto di voto, appoggiamo l’iniziativa proposta da Karate Magazine e dal suo curatore, Michele Damato, di presentare una petizione in cui si chiede l’immediato ripristino della categoria Under 21, considerato che ci sarebbero i tempi, i modi e al momento anche le date per effettuare sia le qualificazioni che il campionato italiano di tale categoria, invece che un trofeo senza punteggio e classifica.

Confermiamo inoltre la sottoscrizione di tale petizione e la speranza che la Direzione Federale faccia ciò che è solita fare: il miglior interesse dei suoi iscritti.

 

Ragazzi e sport: linee guida per una corretta alimentazione. Prima parte.

Da indagini epidemiologiche condotte in Italia si è appreso che il 25% dei bambini in età scolare è in sovrappeso, mentre circa il 10% è obeso.

Perché questo accade? Eppure siamo il paese della dieta mediterranea, della grande scelta di prodotti e blablabla. I fattori sono tanti in realtà: pigrizia, cattive abitudini alimentari, gola, poco tempo da dedicare alla spesa e alla preparazione dei pasti, poca attività motoria settimanale, ma soprattutto falsi miti alimentari: come porzioni eccessive, la considerazione di determinati alimenti come sani o naturali solo perché c’è scritto sulla confezione, (ricordo ancora con dolore la presa di coscienza sulla componente calorica delle Camille del Mulino Bianco!) o la percezione che un’ora di sport sia paragonabile alla traversata dell’Atlantico a nuoto.

Lo mettiamo subito in chiaro: per rimanere in forma non esistono formule magiche, l’unica magia è riuscire a conciliare un minimo di attività fisica giornaliera con una corretta alimentazione, che poi è l’unica formula che può veramente farci capire se ci siano effettivamente dei problemi più seri che non siano riconducibili al quintale di pizza che ci siamo mangiati la domenica precedente o alla bisboccia fatta il venerdì ancora prima, o agli allenamenti saltati durante la settimana.

Ma cosa cambia e come è possibile organizzarci quando si tratta di bambini e ragazzi che si affacciano all’attività motoria e sportiva?

L’attività fisica è solitamente ritenuta responsabile di circa il 25% del bilancio energetico ed entro certi limiti come abbiamo già detto, è sufficiente riferirsi ai criteri classici di una corretta alimentazione. La maggior parte dei bambini in età scolare seguono un’attività fisica amatoriale e in quel caso sarà sufficiente, come per noi adulti, adottare i criteri di una corretta alimentazione, mentre per coloro che si affacciano ad un’attività più intensa è necessario adeguare a ragion veduta quello che si mangia e quanto se ne mangia. Quando si superano questi limiti sia verso il basso che verso l’alto, allora è necessario modificare tali abitudini.

BAMBINI, CIBO E SPORT

L’avvio alla pratica sportiva avviene spesso in età precoce e diventa una componente importante della crescita. Affiancare ad essa una buona educazione alimentare faciliterà un armonico sviluppo psico – fisico ed il raggiungimento di un buono stato di salute. Lo sport in età evolutiva va inteso come stile di vita e sana abitudine da portarsi dietro per tutta la vita insieme, appunto, ad una alimentazione equilibrata, sia dal punto di vista quantitativo (apporto calorico giornaliero) sia qualitativo (apporto giornaliero di macro – micro nutrienti: carboidrati, proteine, lipidi, vitamine, sali minerali, acqua).

L’alimentazione del bambino che fa sport deve seguire e agevolare determinati momenti chiave del processo di crescita e di sviluppo, cosicché il fisico che è comunque quello di un bambino e quindi non ha né la forza, né la resistenza del fisico di un adulto e soprattutto è ancora in crescita, possa rispondere con efficacia e senza particolare fatica agli stimoli cui è chiamato.

 

 

Pasti Percentuale di calorie giornaliere
Colazione 15-20%

 

Spuntino di metà mattina 5-10%

 

Pranzo 35-40%

 

Spuntino metà pomeriggio 5-10%

 

Cena 25-30%

 

 

Solitamente un bambino che si allena 2/3 volte alla settimana per una durata massima di 2 ore circa, NON IMPEGNA PIU’ ENERGIA DI UN NORMALE GIOCO DI MOVIMENTO, perciò NON E’ ASSOLUTAMENTE NECESSARIO INCREMENTARE LA RAZIONE ALIMENTARE. Se nel dopo allenamento i ragazzi vengono rimpinzati con panini, pizzette, succhi di frutta, merendine e dolcetti vari praticare un’attività sportiva NON METTE AL RIPARO DA UN INCREMENTO DEL PESO.

 

La sola attività sportiva standard NON E’ SUFFICIENTE per legittimare un supplemento dietetico. Ciò in parte aiuta a comprendere come sia possibile che, nonostante l’aumento dell’attività sportiva in età scolare ci sia stata negli ultimi decenni un’impennata dell’obesità infantile e cioè: LE PORZIONI E IL TIPO DI ALIMENTI NON SONO ADEGUATI AL MOVIMENTO CHE SI FA DURANTE LA SETTIMANA.

Cibo e attività devono essere un equilibrio, non è giusto fare un’eccessiva attività motoria per giustificare ciò che si mangia, o mangiare meno di quanto sia necessario per perdere peso più facilmente o doversi muovere di meno.

 

FABBISOGNO ENERGETICO E NUTRIZIONALE.

Il fabbisogno energetico qualitativo è simile per lo sportivo e il soggetto sedentario. Le differenze riguardano la distribuzione dei pasti in relazione agli allenamenti e la naturale preferenza verso determinati alimenti piuttosto che altri.

Come possiamo capire la spesa energetica dei nostri bambini ed in relazione ad essa organizzare la loro alimentazione? Come abbiamo già detto in precedenza, salvo alcuni casi eccezionali non ci sono particolari variazioni fino ad una certa età e sopra ad una soglia massima di due ore di allenamento, dove per allenamento si intende un’attività motoria continuata con piccole pause prestabilite, che nulla ha a che fare con le eventuali giornate di gara, delle quali parleremo più avanti.

Non potendo misurare l’incremento di calore corporeo o la quantità di ossigeno consumato possiamo fare indicativamente riferimento ad alcune tabelle nutrizionali quella che segue è quella della LARN, nella quale si evidenzia la distribuzione dei pasti che risultano essere piccoli e frequenti, in questo modo il bambino dovrebbe evitare di mangiucchiare in continuazione, che è un’abitudine tanto dannosa quanto quella di saltare i pasti.

NUTRIENTE Apporto percentuale giornaliero
Carboidrati

(1 gr = 4 calorie)

55-65%, di cui il 12-15% deve essere costituito da zuccheri semplici

 

Proteine

(1 gr = 4 calorie)

12-15% devono comprendere tutti gli aminoacidi essenziali e non, indispensabili per le funzioni plastiche e l’accrescimento dell’organismo; non serve incrementare l’apporto proteico

 

Lipidi

(1 gr = 4 calorie)

30%, di cui solo ¼ deve provenire da acidi grassi saturi (prevalentemente di origine animale) e polinsaturi (olii di semi, pesci, carni bianche) mentre la maggior parte deve derivare da acidi grassi monoinsaturi (es. acido oleico nell’olio d’oliva, oppure mandorle, ecc.)

 

Acqua Il fabbisogno di acqua per i bambini è pari a 1,5 ml/kcal/die.

L’apporto idrico deve essere abbondante e ben distribuito. Bisogna bere prima, durante e dopo l’attività fisica. L’ACQUA E’ L’UNICO LIQUIDO DI CUI HA BISOGNO UN BAMBINO SPORTIVO.

 

 

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INDICAZIONI DIETETICHE

Vanno consumati senza alcuna esclusione preconcetta tutti gli alimenti compresi nei gruppi alimentari compresi nella tabella qui sopra. Sono stati elencati in ordine: da quello da consumarsi in maniera più moderata a quello da consumarsi in maniera più abbondante.

Informazioni chiave:

  • gli affettati NON sono considerati carne bianca o rossa, ma insaccati e vanno consumati con moderazione
  • i formaggi vanno preferiti freschi e NON stagionati
  • i cibi vanno consumati preferibilmente secondo la stagione, qualora ciò non fosse possibile, preferire i surgelati allo scatolame, perché contiene un’eccessiva quantità di sale e meno vitamine.
  • Alternare pasta e riso classici con polenta, patate e cereali minori: farro, orzo, quinoa, amaranto, miglio, ecc.
  • Le patate NON sono verdure
  • Consumare CON ESTREMA MODERAZIONE i prodotti da forno confezionati: merendine, torte confezionate, cornetti. Preferire ad essi i prodotti fatti in casa.
  • Moderare il consumo della carne, soprattutto quella rossa, sostituendola con altre fonti proteiche animali (pesce, uova) o vegetali (legumi)
  • Preferire come condimento l’olio d’oliva, evitare i grassi di origine animale (burro, strutto, pancetta) e grassi idrogenati (margarina)
  • Evitare di DISSOCIARE le pietanze, per non dover eccedere con le porzioni (cioè non mangiare pasta a pranzo e proteine a cena, ma preferire un menù con porzioni più piccole ma con almeno due portate)

 

 

Gruppo Alimenti Nutrienti Porzioni
1° Carni, pesci, uova Carni bianche e rosse, prodotti della pesca, uova

 

 

Proteine, vitamine, sali minerali 1-2 al giorno

solo 2-3 volte a settimana

2° Latte e derivati Latte, yogurt, formaggi  

Proteine, vitamine, sali minerali

 

 

 

1-2 al giorno

 

 

3° Cereali e tuberi  

Pane, pasta, riso, mais, avena, orzo, farro, patate, cereali per la prima colazione

 

 

Carboidrati, proteine, vitamine del gruppo B  

2-4 al giorno

 

 

 

 

4° Legumi Legumi secchi e freschi  

Fibra, vitamine, sali minerali (ferro), carboidrati

 

 

1-2 al giorno
5° Grassi da condimento Olio d’oliva e di semi, burro, panna ecc. Grassi, acidi grassi, vitamine liposolubili 1-3 al giorno

 

 
6°-7° Frutta e verdura Frutta, ortaggi Fibra, sali minerali, vitamine (acido ascorbico e beta-carotene) 3-5 al giorno

Fonte: modificata da “linee guida per una sana alimentazione italiana” revisione 2003 INRAN.

 

Possiamo brevemente riassumere dunque che ciò che conta è innanzitutto la varietà degli alimenti e dei pasti, non bisogna dunque rinunciare a nulla ma imparare a mangiare con criterio, non giustificando alimenti ad alto contenuto di grassi e zuccheri con l’attività fisica e con lo sport, anzi, muoversi dovrebbe essere un incentivo a mangiare meglio e con più attenzione, soprattutto se decidiamo di intraprendere un’attività agonistica. Ma di questo parleremo la prossima settimana!

Avete bisogno di un promemoria? Beccatevi la nuova piramide alimentare e guardate attentamente che cosa c’è alla base!

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Nuova piramide alimentare prodotta dalla società Italiana di Pediatria.

 

 

Fonti: L’alimentazione per lo sportivo (G. Miggiano, il Pensiero Scientifico Editore), http://www.inran.it, http://www.sip.it, http://www.sinu.it

 

 

Se fai quello che hai sempre fatto, otterrai ciò che hai sempre ottenuto.

Brevi cenni sulla motivazione sportiva e non

 

La motivazione è un’energia interiore che può determinare vari aspetti del nostro comportamento: ha un effetto su come pensiamo, sui nostri sentimenti e sull’interazione con gli altri. Un prerequisito essenziale nello sport per portare gli atleti a raggiungere il loro potenziale è l’alto livello di motivazione. Ad ogni modo, data la sua natura astratta, è molto difficile esprimerla completamente. D’altra parte altri trovano la motivazione un concetto elusivo, che tentano di gestire con difficoltà in eterno.

Ci sono vari approcci allo studio della motivazione. Alcuni sono basati sulla programmazione di rinforzi positivi e negativi (es. il riflesso Pavloviano) mentre altri si concentrano sul senso individuale di destreggiarsi all’interno di una serie di circostanze. Questo articolo analizza la motivazione così come viene interpretata nell’approccio contemporaneo conosciuto come teoria dell’auto-determinazione, che enfatizza il ruolo della scelta individuale.

Differenti tipologie di motivazione.

La teoria dell’autodeterminazione è uno degli approcci più ampiamente sperimentati per la gestione della motivazione nello sport. Questa teoria si basa su una serie di motivi o regolazioni, che variano a seconda del grado di autodeterminazione che riflettono. L’autodeterminazione ha a che fare con il grado in cui i propri atteggiamenti vengono selezionati e autonomamente proposti. Le regolazioni comportamentali possono essere sistemate in un continuum di autodeterminazione. Possiamo semplificare affermando che la motivazione può essere estrinseca o intrinseca.

La demotivazione, invece, rappresenta una mancanza di intenzioni nell’iniziare un determinato comportamento. È accompagnata da sensazioni quali incompetenza e mancanza di connessione fra il comportamento personale e il risultato previsto. Gli atleti demotivati possono dire cose tipo: “non vedo lo scopo del mio allenamento, mi stanco e basta” oppure “non sento più il brivido della competizione”. Tali atleti mostrano un senso di inadeguatezza e sono fortemente a rischio abbandono.

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La motivazione estrinseca viene appunto dall’esterno: le persone, in questo caso gli atleti, sono portati al risultato da fattori esterni quali i premi in denaro, i trofei, lo status.

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La motivazione intrinseca viene, ovviamente dall’interno, è completamente autodeterminata e caratterizzata dall’interesse e dal divertimento che deriva dalla partecipazione allo sport nonché, chiaramente, dalla volontà di essere migliori e migliorare se stessi. Ci sono tre tipi di motivazione intrinseca; quella che ci spinge a sapere, quella che ci spinge a raggiungere un obiettivo e quella che ci spinge a provare stimoli. La motivazione intrinseca va considerata come quella più sana e riflette la motivazione dell’atleta a competere in un’attività semplicemente per la sensazione che si prova nella partecipazione ad essa.

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Il più alto livello di partecipazione è quello che si definisce FLOW.

Il FLOW è uno stato mentale caratterizzato da una completa immersione in un’attività, al punto che nient’altro conta. Nodale nell’ottenimento del FLOW è una situazione in cui si verifica una sinergia perfetta fra la percezione di ciò che viene richiesto da un’attività e la percezione di un’abilità o capacità specifica di un atleta. Durante il FLOW, la coscienza di sé si perde e l’atleta diventa un tutt’uno con la sua attività. Per esempio, un tennista può descrivere come sente la sua racchetta diventare l’estensione del suo braccio mentre è in FLOW.

Una sfida al di sopra delle proprie possibilità o troppo pressante può generare ansia, il che significa che il coach deve assicurarsi che gli atleti puntino ad obiettivi realistici. Al contrario, se gli atleti sono dotati di alte capacità rispetto all’attività in questione e la sfida che viene proposta è di livello relativamente basso può subentrare la noia. L’apatia emerge quando sia la sfida che le capacità sono di basso livello. Per facilitare il FLOW è necessario finalizzare delle sfide che portino gli atleti un pezzettino più avanti di quanto non fossero stati già portati nella sfida precedente.

Aumentare la motivazione è prioritario per poter cambiare atteggiamento, sviluppare una mentalità positiva ed entrare in comportamenti che facilitino il miglioramento della performance. In questo caso l’assistenza del coach è fondamentale: è auspicabile che questi tenda sempre di più a creare un ambiente di lavoro per l’atleta che lo stimoli a prendere decisioni in coscienza, cioè che non gli venga detto cosa fare ma che lo metta al centro di ciò che fa e che lo coinvolga nell’esplorare e trovare le risposte ai problemi che incontra durante gli allenamenti e le competizioni.

Per gli atleti, questa percezione delle loro competenze risulta positiva perché non si sentono minacciati dall’essere additati come “quelli che fanno la cosa sbagliata” poiché non ci sono risposte sbagliate, ogni atleta costruisce le sue conoscenze per uno scenario specifico che poi possono essere utilizzate in future situazioni di gara. D’altro canto la percezione delle loro competenze durante una qualsiasi performance aumenta e il raggiungimento degli obiettivi accresce la motivazione intrinseca e l’autoefficacia.

È chiaro che ciò non si riferisce all’esecuzione di una tecnica specifica, ma alla gestione di sé stessi durante una sfida, aspetto che non va mai sottovalutato e senza il quale tutto ciò che noi facciamo perde assolutamente di valore, sia che lo intendiamo come uno sport, sia che rappresenti per noi un modello di vita in quanto arte marziale.

In entrambi i casi, ciò che ci porta avanti davvero è ciò che viene da dentro di noi: se rimane dov’è ci stiamo sprecando!

 

Fonti: traduzione ed editing dei seguenti articoli consultabili su http://www.believeperform.com: Motivation in sport (Valerie Dennehy), Extrinsic vs Intrinsic Motivation (James Barraclough), Developing intrinsic motivation: the role of the coach (Tom Shields)

KATA: una parola mille significati.

Dopo lunga assenza sul web (ma moltissime visualizzazioni) torniamo a parlare di lingua giapponese approfittiamo per spiegare a linee molto larghe come funzionano i kanji e come sono strutturati analizzando un kanji specifico di una parola a tutti voi ben nota:

KATA.

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Per quanto nessuno di voi, pur praticando arti marziali, sia obbligato a leggere la lingua giapponese, è bene sapere che allo stesso suono nella lingua nipponica possono essere attribuiti diversi significati, quindi diversi ideogrammi, o meglio, kanji.

Poiché nulla è casuale è anche vero che saper leggere ciò che facciamo può aiutarci a capire meglio COSA stiamo facendo e, al tempo stesso, anche dare un significato più personale alla nostra pratica.

Cominciamo col dire che per quanto riguarda la parola Kata, su un qualsiasi dizionario di Kanji (cioè il Nelson, ma questa la capiamo in pochi) troverete almeno una quindicina di risultati. Lo stesso risultato lo otterrete consultando un dizionario online. Per i più curiosi qui ne suggeriamo uno: http://tangorin.com/

Questo che cosa significa? Che ci sono all’incirca 16 parole che vengono pronunciate nello stesso modo, ma che hanno significato diverso, identificabile solo grazie al contesto in caso di una conversazione oppure, in caso di testo scritto, grazie al Kanji di riferimento.

Ecco qui di seguito la tabella dei kanji di KATA.

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KATA viene di solito tradotto come “FORMA” ma ciò non significa assolutamente che tutti i Kanji qui sopra abbiano significato simile, fra l’altro è veramente corretto attribuire la traduzione di “FORMA” al Kanji di Kata riferito al Karate?

No per la prima risposta, sì e anche no per la seconda.

A meno che non ci si pari davanti un Kanji di base, come destra, sinistra, acqua, fuoco, ecc.questo ha bisogno di essere contestualizzato, ecco ad esempio alcuni significati del kanji di KATA.

潟: laguna

肩: spalla

方: persona

鎌: falcetto

Nessuno di questi è riconducibile alle nostre necessità, il Kanji corretto per l’uso “marziale” invece è questo:

形: forma, figura, stile.

Per quanto questo sia il più accreditato, c’è un altro ideogramma che farebbe al caso nostro, per quanto non si utilizzi più granché:

型: tipo, modello

https://it.wikipedia.org/wiki/Kata, come vedete anche wikipedia lo sa.

La domanda che chiunque si pone, ma soprattutto se la pone chi ha studiato giapponese è: PERCHE’?

Perché se vuoi dire la stessa cosa, pur utilizzando un sinonimo mi devi tirare fuori un kanji diverso che magari a prima vista pare che c’assomiglia e invece no?

In questo la lingua stessa ci viene incontro, (e non crediate che i madrelingua a mandorla non abbiano simili problemi) in prima battuta basti pensare ad un qualsiasi libro, articolo, sito web dove alla parola karate venga accostata la parola kata: il kanji utilizzato è il primo, quello diciamo considerato standard. Idem per quanto riguarda i siti di settore, ad esempio: Japanese Karate Federation’s website, se non leggete il giapponese memorizzate il kanji e cercatelo in una delle pagine dei risultati di gara, vedrete che è sempre lo stesso.

Quindi perché ne esiste un altro? Perché uno è stato considerato standard e l’altro “scacciato con disonore”? Io ritengo che non lo sappiano esattamente nemmeno i giapponesi, che a mio modesto avviso, si fanno molte meno domande inerenti la loro lingua e la loro cultura di quante non ce ne facciamo noi per loro, ma se proprio volessimo azzardare un’ipotesi potremmo dire che, nell’incessante sforzo di rendere la lingua più accessibile a tutti senza alfabetizzati di serie A e di serie B (i giornali, i libri, ecc. in Giappone sono più accessibili a chi conosce più kanji, che poi è il motivo per cui nei diffusissimi manga rivolti ai ragazzi o in genere ad un pubblico di massa ce ne sono pochi e perlopiù tutti “sottotitolati” in Katakana o Hiragana) si è deciso per il Kanji con l’impatto più intuitivo. Per comprendere perché ci sia stata una simile preferenza potremmo anche fare riferimento alla composizione dei due Kanji, che, come moltissimi altri sono frazionabili in ideogrammi più semplici.

形 → acqua

forma

Se uniamo le due parti del Kanji, l’idea che ne viene fuori è di qualcosa che possa in un certo senso gestire l’acqua, una sorta di imbarcazione, ma a mio avviso anche di qualcosa che possa contenerla, gestirla e dare senso ad un qualcosa che diversamente dal recipiente che la contiene forma non ne avrebbe. Ve lo dico sinceramente a me la prima cosa che è venuta in mente è stata un tagliabiscotti, però vabbè…sorvoliamo.

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È un significato pratico, un po’ asettico forse a prima vista, però pratico, poco definito, simbolicamente ognuno può afferirgli il valore che ritiene più opportuno, e si può ricondurre genericamente a più usi per lo stesso sostantivo.

E invece l’altro?

型 → punizione

  ↓

terreno, suolo

Significato forse troppo forte per essere utilizzato in maniera standardizzata, ma ugualmente interessante, “la punizione della terra”, verrebbe da tenerlo così. Forse chi i kata li ha fatti veramente, provandoli mille mila volte, rifacendo mille mila volte lo stesso movimento, lottando per l’equilibrio perfetto, smadonnando (scusate ma non c’è termine più adatto di questo) proprio perché il terreno quando fai i kata non ti è mai amico, ma è il tuo secondo avversario dopo te stesso, ritiene sicuramente che sia una versione molto più accreditata per essere marchiata a fuoco sulle pareti di un qualsiasi dojo.

Per chi invece i Kata non li ama è il Kanji definitivo.

Non è che ti faccia proprio venire voglia di leggerlo su un giornale, quindi la scelta sociale di utilizzare l’altro che evoca sicuramente lidi più dolci dove approdare è più che comprensibile, però tant’è: dall’universale al particolare, eccolo qui.

Forse è giusto mantenerli entrambi, possiamo scegliere quale ci piace di più, o con quale spirito della giornata vogliamo approcciarci allo stesso tipo di pratica, o scegliere una volta per tutte di che pasta siamo fatti e come viviamo il nostro lavoro.

Poco cambia: due facce della stessa medaglia sono qui.

A voi la scelta.

FONTI: Tangorin Japanese dictionary, The New Nelson Japanese Dictionary, Grammatica Giapponese vol. 1: M. Mastrangelo, N. Ozawa, M. Saito, KaratebyJesse, Wikipedia.

L’Evoluzione delle Regole del “Gioco”

Da quando alcune fra le Arti Marziali sono state inserite dal Comitato Olimpico Internazionale (C.I.O.) nella lista degli Sport Olimpici, tutta una serie di cambiamenti ha iniziato a prendere forma, e i regolamenti di gara hanno dovuto per forza di cose adattarsi a tutta una serie di requisiti che, in circostanze non sportive o non olimpiche, venivano ritenuti superflui. Di pari passo con la modifica dei regolamenti si è sentita quindi la necessità di modificare il livello di formazione/aggiornamento della classe arbitrale e di conseguenza la preparazione/aggiornamento del personale devoluto alla preparazione degli Atleti. Il settore Karate non è stato da meno e, da quando ha proposto la propria candidatura al C.I.O., questi cambiamenti sono partiti in prima battuta proprio dai regolamenti e dalla formazione, per proseguire anche con un messaggio di fruibilità e comprensione del Karate, anche per un pubblico non di settore. Il Karate tuttavia non è digiuno a momenti di profondo cambiamento “formale”: tornando indietro agli anni ‘30 e ‘40 ci accorgiamo di quanta strada sia stata percorsa, anche a livello di apertura mentale, ma anche di quanto gli obbiettivi siano rimasti sempre gli stessi, infatti ad esempio nonostante il Karate fosse già all’interno del sistema di istruzione universitario giapponese e che alcune forme di competizione nel combattimento libero fossero già praticate, tra il 1940 ed il 1941 per tutta una serie di motivi storico – sociali il M° Funakoshi proibì le competizioni e addirittura minacciò gli allievi di essere espulsi dallo Shotokan se vi avessero partecipato. Successivamente grazie a Tsutomu Ohshima, che capì la necessità delle competizioni per attirare l’attenzione del pubblico anche al di fuori delle Università, si ebbe la creazione di un sistema d’arbitraggio con due arbitri e quattro giudici agli angoli, per evitare discussioni fra competitori, per imporre più rispetto verso gli arbitri e per dare una migliore immagine del Karate al pubblico. Negli anni questo metodo di arbitraggio a livello internazionale ha subito sempre più cambiamenti passando dapprima a soli due Arbitri, di cui uno “specchio”, più un “Arbitrator” esterno fino a tornare nuovamente, negli anni recenti, alle “origini” con un Arbitro centrale coadiuvato da quattro Giudici di sedia.

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Chi osserva oggi un incontro di Kumite sportivo o una gara di Kata, difficilmente riuscirà a trovare corrispondenza con le competizioni della stessa tipologia rapportate a vent’anni prima. Si può quindi sostenere che nel settore Arbitrale, e di conseguenza in quello sportivo – agonistico, il Karate negli anni ha subito dapprima un’evoluzione che ha portato poi ad un ritorno verso quella che era l’origine, tentando di mantenere intatti i principi che da sempre lo hanno guidato.

Ovviamente, nel momento in cui vengono fissati dei “paletti” per il corretto svolgimento di un’ attività, si viene a creare la necessità di identificare una figura, esterna ai contendenti, che in primo luogo conosca questi “paletti” e che poi sia in grado di saper gestire lo svolgimento delle azioni in maniera obbiettiva, senza favorire nessuna delle parti in causa. Questa figura viene normalmente chiamata Arbitro o Ufficiale di Gara.

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L’Arbitro, salvo qualche esempio deviante, riveste da sempre una posizione di importanza secondaria all’interno di una competizione proprio perché normalmente i riflettori sono puntati sugli Atleti; nonostante ciò la sua presenza è fondamentale: senza di esso nessuna gara o competizione sportiva potrebbe essere disputata, è vero anche che la figura dell’Ufficiale di Gara è da sempre una delle meno giustificate del mondo degli sport: lo si critica, ma difficilmente lo si elogia anche se sotto la sua guida l’incontro si è svolto con regolarità, spesso proprio perché si ritiene che quello sia semplicemente un suo preciso dovere, dimenticando che l’errore è purtroppo seppure esecrabile quantomeno possibile, trattandosi di esseri umani che giudicano altri esseri umani.

È proprio questo uno dei motivi per cui in tutte le realtà agonistiche si punta sulla professionalità delle classi arbitrali ed è ormai universalmente riconosciuta l’importanza della formazione nel settore arbitrale a prescindere da quale disciplina si pratichi, è per questo che i vari corsi hanno durata variabile in base alle complessità dei regolamenti e degli argomenti trattati all’interno degli stessi. Per quel che riguarda le arti marziali e nello specifico il Karate, nella stragrande maggioranza dei casi l’Ufficiale di Gara è un praticante (o ex – Atleta) più o meno giovane (ma comunque maggiorenne) che alla data del corso di formazione sia in possesso del grado minimo di Cintura Nera. Altri requisiti che mano a mano vengono acquisiti quasi meccanicamente con il tempo sono: la sicurezza nell’applicazione dei regolamenti studiati, l’esperienza nel gestire le situazioni ed un buon colpo d’occhio per poter vedere e valutare le varie tecniche portate dagli atleti; poi ci sono le qualità che non tutti gli Ufficiali di Gara riescono a sviluppare come ad esempio: la passione nel ricoprire la carica arbitrale, la professionalità per poter dare il meglio e riuscire quindi a tutelare i diritti degli Atleti ed ultima ma forse si tratta della qualità più importante di tutte, l’obbiettività nell’esprimere il proprio giudizio. A queste vanno inoltre aggiunte una grande pazienza e una dose non indifferente di autocontrollo.

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La risultanza più logica di questa continua evoluzione dovrebbe essere anche il costante aggiornamento da parte dei vari Insegnanti/Istruttori/Allenatori/Maestri. Purtroppo non sempre questo assioma trova riscontro nella realtà di tutti i giorni, infatti spesso in gara, soprattutto nelle leghe minori, ci si trova ad affrontare situazioni, a volte anche spiacevoli, dove gli Atleti, forti degli “insegnamenti” ricevuti, non sono in grado di comprendere per quale motivo vengono sanzionati e valutati in maniera negativa durante una prova, oppure addirittura squalificati. Si viene quindi a creare il problema di avere una classe arbitrale aggiornata, che va a “cozzare” con una classe di atleti che purtroppo è totalmente disinformata sul regolamento e di conseguenza sui criteri di giudizio applicati per la valutazione delle prove. Colmare il “GAP” che si viene a creare tra Atleti ed Ufficiali di Gara in teoria spetterebbe proprio a quelle figure che, per definizione, dovrebbero Insegnare/Istruire i propri Atleti nel migliore dei modi al fine di effettuare la migliore prestazione possibile. Troppo spesso però si viene a creare un paradosso in cui tali Insegnanti, invece di ricercare obiettivamente le vere cause della sconfitta di un proprio Atleta (magari nelle tecniche eseguite in maniera poco efficace, nell’uso di una tattica non appropriata, nella scelta di tempo non corretta o anche nell’essersi collettivamente disinteressati allo studio del regolamento della competizione) preferiscono scaricare le loro colpe sull’incompetenza, a loro giudizio, degli Ufficiali di Gara rischiando anche di ottenere, come eventuale risultato, che l’Atleta perda fiducia e rispetto (quindi che si comporti in maniera poco consona) verso coloro che dovrebbero essere lì per giudicare in maniera imparziale. Anche in questo caso dunque, vi è una mancanza di collaborazione: in contesto di gara da parte di tutte le parti in causa e, al di fuori della competizione, c’è una certa disattenzione da parte di alcune entità federali o promozionali nei confronti dell’aggiornamento dei tecnici anche dal punto di vista teorico.

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In un’era moderna dove con il continuo sviluppo delle tecniche di allenamento e di modalità applicative delle stesse, volte al raggiungimento del migliore risultato agonistico possibile, cercate di non rimanere immobili, non importa che voi siate Ufficiali di Gara, Insegnanti, Istruttori, Allenatori, Maestri di più o meno comprovata esperienza o fama, imparate a lasciarvi trasportare dalla corrente dell’innovazione, ma soprattutto a non perdere l’entusiasmo in quello che fate perché il settore sportivo – agonistico delle discipline marziali è sempre in continua evoluzione e di conseguenza con esso anche tutto il settore della formazione. Si può non approvare o non condividere e per questo non scegliere, ma qualche spunto valido anche semplicemente su cosa non ci piace fare lo si trova ovunque, basta conoscere per poter giudicare!

 

 

 

 

Kettlebell, Ishi – Sashi e i corsi e ricorsi storici.

Nella grande, infinita e stancante diatriba su ciò che è vero e tradizionale e su ciò che è falso e degradante per tutto ciò che concerne l’arte marziale italiana a partire dalla sua preparazione atletica, ci troviamo a scrivere questo report al netto di un interessantissimo allenamento domenicale con Marco Conforti e Fabrizio Davì.

La riflessione parte da un’esperienza di allenamento funzionale, che come suggerisce l’aggettivo, significa che tale allenamento deve essere necessariamente “funzionale a qualcosa”, quindi adatto a uno scopo.

Nel caso dell’Allenamento Funzionale vero e proprio si intende un lavoro che viene effettuato con attrezzi molto semplici, lavorando in primis su un aspetto fondamentale per chiunque approcci a qualsiasi attività motoria: l’educazione al movimento.

Ovvio che qui si parla di adulti ma in tutte le attività amatoriali il tasso di piccoli incidenti dovuti all’incuria del particolare è davvero dietro l’angolo. Ora con l’allenamento funzionale questa incuria è praticamente impossibile, perché l’allenamento stesso si basa sulla cura di postura e movimento.

Non vi sembra di riscontrare nessuna somiglianza?

Allora facciamo un excursus su un attrezzo specifico: Kettlebells.

kettlebells

Sfere di ghisa di diverso peso con una maniglia sopra.

Tutto qui?

Sì, fine, non c’è altro. Un solo attrezzo, a prezzo accessibile, migliaia di combinazioni di esercizi per un allenamento completo e in fondo è pure divertente. Eccolo qui. L’uovo di colombo più riuscito dell’allenamento funzionale.

Ancora niente?

Allora eccoci: Ishi – Sashi.

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Probabilmente più noto a chi si interessa di Goju ryu tradizionale, l’Ishi – Sashi altro non è che un enorme lucchetto di ghisa che veniva utilizzato per allenare determinate fasce muscolari particolarmente utilizzate nel karate, ma plausibilmente anche nel Kung Fu, poiché si ritiene che l’attrezzo abbia derivazione cinese.

Ora che sia un caso o meno che oggi, dal trentenne che vuole definirsi in palestra affiancando al classico allenamento in sala pesi una variante più dinamica o semplicemente da sfruttare anche in pausa pranzo o al professionista UFC sotto gara che voglia ottimizzare il più possibile la sua forza esplosiva, venga comunque utilizzato lo stesso attrezzo, seppure con applicazioni, diverse la coincidenza può anche indurci a riflettere.

sashi

È comprensibile che oggi se ne faccia un uso anche basato su una maggiore conoscenza del corpo e che i materiali, i pesi e le forme siano stati modificati in funzione di una maggiore fruibilità e anche di un minore ingombro, ma le applicazioni di kettlebell e ishi – sashi sono davvero similari. Per non parlare degli scopi. Sfruttare completamente le catene cinetiche quando si portano i colpi: gli esercizi fatti sul caricamento del pugno, dove il movimento parte praticamente dal tanden, o dal core, a seconda se preferite stare a Oriente o a Occidente, sono forse l’esempio più calzante, considerato quanto si accosta anche a quanto detto da Maestri di indubbia capacità.

In parole povere, che preferiate la variante moderna o quella antica poco cambia, sono ancora disponibili entrambe e l’importante è che vi alleniate!

Il resto dipende come sempre solo da voi!!

Fonti: Treccani, KaratebyJesse

Camminare: l’analisi del passo

Calzetti & Mariucci Libri e video per lo sport

Camminare: l'analisi del passo

Il passo è l’unità funzionale di riferimento del ciclo di progressione del cammino. Dal punto di vista biomeccanico la camminata è un’alternanza di intervalli di accelerazioni e decelerazioni, mentre a livello funzionale non è altro che l’appoggio di un tallone e il consecutivo appoggio della controparte omolaterale. Con il termine semipasso, o transito ad appoggio controlaterale, invece si indica la distanza tra l’appoggio del tallone destro e del sinistro.
La sequenza del cammino può essere suddivisa in otto fasi o sottosequenze secondo Jacquelin Perry, ma i due momenti basilari sono l’appoggio e l’oscillazione. Il primo rappresenta il momento di supporto o tempo frenante, dove il piede aderisce perfettamente al suolo e tutto il peso grava sull’arto inferiore, mentre l’oscillazione  costituisce il momento propulsivo, detto anche tempo di sospensione, poiché il piede viene sollevato dal suolo in direzione della linea di avanzamento. Ciò implica un’estensione del piede sui…

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KURO OBI

In una società contemporanea dove “apparire” ottiene spesso maggiore rilevanza dell’ “essere” si vuole affrontare quello che, nonostante tutto, è un argomento che dovrebbe accomunare entrambe le correnti di pensiero. Ci si soffermerà sul significato che percorrere la Via (DO) può assumere per molti di noi nel raggiungimento del grado di Cintura Nera (Kuro Obi).

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Ogni attività sia essa lavorativa che ludico – sportiva porta durante il suo svolgimento ad un accrescimento personale ben definito che in alcuni casi impiega una vita intera per essere raggiunto. La pratica delle Arti marziali è una di quelle attività che, se affrontata con consapevolezza e coscienza, permette uno sviluppo personale sia ad un livello esteriore (es. benessere fisico generale) che ad un profondo livello interiore (es. la canalizzazione delle energie).

Ovviamente è un percorso lungo e molto personale tanto che difficilmente, a parità di esperienza, mettendo a confronto 2 praticanti si può riscontrare in essi il raggiungimento della stessa maturità, consapevolezza o tecnica. È anche per questo che nelle Arti Marziali si sente sempre più spesso parlare di Cinture, Gradi e Qualifiche. Ognuno di questi termini per un praticante racchiude un significato intrinseco che rivela il proprio status in un preciso momento del suo cammino.

Ma cos’è che, almeno inizialmente, ci dà la spinta per iniziare un percorso marziale? I fattori possono essere molteplici e disparati, presto o tardi però un comune denominatore ci porta, nel caso di una pratica assidua e costante, a determinare che il nostro obbiettivo ultimo sia il conseguimento della Cintura Nera.

Tante sono le storie che ruotano intorno al mito delle Cinture Nere. Nel racconto più diffuso si narra di un novizio di Arti Marziali che, iniziato il suo percorso con la cintura bianca, era solito lavare abitualmente l’intera uniforme da addestramento tranne la cintura. Essa con il passare del tempo e con il costante allenamento negli anni di pratica tra sudore e sangue, iniziava gradualmente a diventare prima di un giallo sbiadito, poi di un misto tra il verdognolo ed un marrone chiaro, successivamente si colorava sul marrone sporco scuro e finalmente uno sporchissimo colore nero a dimostrazione che ormai l’Arte era perfezionata.

Da qui la “tradizione” di non lavare mai le proprie cinture durante gli anni di pratica, nella speranza di garantire loro un aspetto usurato a dimostrazione dei duri anni di allenamento. Proprio da questa storia sembra traggano origine i gradi e rispettivi colori (Bianco, Giallo, Arancio, Verde, Blu, Marrone, Nero), che vennero poi ufficializzati nella pratica tradizionale delle arti marziali moderne.

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Questa è sicuramente una storia affascinante e ricca di numerosi spunti di riflessione e significati, ma se facciamo un salto indietro nella storia ci accorgiamo che le cose sono andate in maniera leggermente diversa. L’attuale sistema di Kyu/Dan per i gradi e le cinture è un sistema relativamente giovane che fu introdotto dal Maestro Jigoro Kano, fondatore del Kodokan Judo. Egli fu il primo ad usare la Cintura Nera per distinguere gli allievi nel Kodokan, fondato a Tokyo nel 1882; revisionò inoltre il sistema di graduazione creando dei gradi con intervalli relativamente brevi, per mantenere alto il livello di interesse degli allievi durante la progressione attraverso i livelli tecnici. In alcune Arti Marziali ancora oggi viene indossata la cintura bianca attraverso la progressione nei gradi Kyu, mentre in alcune scuole si utilizza la cintura marrone per i Kyu più alti.

Ma qual è il vero significato che si nasconde dietro alla Cintura Nera, è davvero la fine di un percorso oppure è l’inizio del vero percorso? Molto nella risposta a questa domanda risiede negli insegnamenti ricevuti dal proprio Maestro, perché come si sa la mela non cade mai troppo lontana dall’albero.

Per alcuni praticanti la Cintura Nera non è altro che il traguardo finale a cui arrivare e spesso giovani e promettenti allievi che una volta raggiunto tale qualifica smettono di praticare, vuoi per una mancanza di “stimoli dall’alto”, vuoi perché convinti di “essere arrivati”. In altri casi fortunatamente la formazione viene recepita come un continuo stimolo al miglioramento personale, ma anche qui la scelta della prosecuzione o meno nella Via è un fatto totalmente personale.

Se si dovesse fare un parallelismo tra i Kyu ed i Dan è plausibile sostenere che: i Kyu sono i gradi di un percorso basilare, che una volta affrontato con la giusta consapevolezza permette di accedere ad un livello più alto di impegno per l’apprendimento; è per questo che spesso sentiamo dire che una volta giunti alla tanto agognata Cintura Nera inizia il vero studio nella Via.

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Come detto all’inizio la tendenza in molti casi è quella di “apparire” piuttosto che “essere” ed è qui che entra in gioco un altro famoso racconto in cui si narra che, durante una lezione uno studente chiese a cosa servissero le cinture e il suo Maestro, tale Bruce Lee, rispose con la celebre frase “servono solo a sostenere i pantaloni”.

Sebbene questa affermazione abbia suscitato in passato l’ilarità di molti, soprattutto tra i praticanti, ancora oggi ci troviamo spesso di fronte a persone che occupano una posizione o un ruolo in un organigramma solo ed esclusivamente grazie ad un riconoscimento marziale, più o meno elevato, quando le reali capacità dell’individuo di fatto non sono corrispondenti alla conoscenza e l’esperienza acquisita e di fatto sancita dal grado stesso.

Per molti di noi il sacrificio profuso nel raggiungimento di un determinato grado è la maggiore soddisfazione che si possa provare, che ci rende fieri ed orgogliosi di vestire quello che, nonostante le “cattive devianze”, è un simbolo universalmente riconosciuto da chi ci osserva, quale punto di inizio per uno studio più approfondito lungo la Via che abbiamo scelto di percorrere… ecco come il significato della Cintura Nera può trovare collocazione “nell’apparire” ma soprattutto “nell’essere”.

Fonti: Wikipedia,

The History of Karate Belts and Ranks by Wendell E. Wilson 

Belt colors and ranking tradition by Don Cunningham

BULLISMO? NO GRAZIE!

Lo presentano come un fenomeno del nostro tempo ma non è così. Il bullismo c’è sempre stato.

Magari non se ne aveva una definizione così netta, non era così semplice riscontrarne i contorni, poteva sembrare meno diffuso, ma di certo non è una novità dei giorni nostri.

Ma che cos’è di preciso il bullismo?

Per bullismo si intendono tutte quelle azioni di sistematica prevaricazione e sopruso messe in atto da parte di un bambino/adolescente, definito “bullo” (o da parte di un gruppo), nei confronti di un altro bambino/adolescente percepito come più debole, la vittima.

Secondo le definizioni date dagli studiosi del fenomeno , uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto deliberatamente da uno o più compagni.

Non si fa quindi riferimento ad un singolo atto, ma a una serie di comportamenti portati avanti ripetutamente all’interno di un gruppo da parte di qualcuno, per avere potere su un’altra persona.

Il termine si riferisce al fenomeno nel suo complesso e include i comportamenti del bullo, quelli della vittima e anche di chi assiste.

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E’ possibile distinguere tra bullismo diretto, che comprende attacchi espliciti nei confronti della vittima e può essere di tipo fisico o verbale, e bullismo indiretto, più diffuso fra le ragazze, che danneggia la vittima nelle sue relazioni con le altre persone, attraverso atti come l’esclusione dal gruppo dei pari, l’isolamento, la diffusione di pettegolezzi e calunnie sul suo conto, il danneggiamento dei suoi rapporti di amicizia. Quando le azioni di bullismo si verificano attraverso Internet (posta elettronica, social network, chat, blog, forum), o attraverso il telefono cellulare si parla di cyberbullismo.

IDENTIKIT DEL BULLO: i dati a disposizione circa la fisiologia e le motivazioni del prevaricatore sono contrastanti, ma di solito l’immagine che viene fuori è duplice: da un lato può esserci una personalità fortemente narcisistica, dall’altro invece potrebbe esserci un ragazzo insicuro con una propensione all’aggressività, nella maggior parte dei casi istigato da fattori come l’invidia o il risentimento.

IL BULLO E’ SOLO? Spesso non lo è, i suoi cosiddetti “attendenti” non sono interessati ad un ruolo di primo piano nelle vessazioni, ma sono tuttavia direttamente coinvolti nella denigrazione della vittima o nell’incoraggiamento del bullo stesso a perpetrare le vessazioni. Spesso questi personaggi non intervengono in difesa dell’aggredito per paura di essere a loro volta vittimizzati ma anche per una propria idea personale, dettata dall’esperienza, in merito alle ingiustizie della vita. Questo tipo di atteggiamenti sottendono spesso alla creazione del fenomeno delle Baby Gang.

CHI E’ LA VITTIMA: la vittima è quasi sempre il diverso: vuoi che sia il suo colore, il sesso, l’orientamento religioso o in caso di ragazzi più grandi quello sessuale, ma in realtà basta essere troppo bassi o troppo alti, troppo grassi o troppo magri, troppo riservati o troppo socievoli, basta uno sciocco difetto fisico come le orecchie a sventola o il naso grosso, ma anche un abbigliamento “altro” da quello considerato alla moda. A volte basta una forte personalità. Tuttavia la vittima è di solito chi non riesce a scoraggiare i suoi aggressori e non riesce a dimostrare in qualche modo di non essere intenzionata a continuare a subire alcuna intimidazione né altri sintomi che possano favorirne l’insorgenza. Quei soggetti, infatti, che riescono subito a scoraggiare chiunque ad effettuare nuovi tentativi di approccio deviante, sono coloro che più di tutti riescono a sfuggire dal distruttivo ciclo abusivo. D’altro canto coloro che reagiscono rapidamente a situazioni nelle quali si percepiscono delle vittime, purtroppo tendono a diventare più frequentemente delle potenziali vittime del bullismo.

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COME SI CONTRASTA IL BULLISMO? La strategia migliore per combattere il bullismo è la prevenzione, alla base della quale c’è la promozione di un clima culturale, sociale ed emotivo in grado di scoraggiare sul nascere i comportamenti di prevaricazione e prepotenza. La scuola è il primo luogo di relazioni sociali per i bambini e, in virtù del suo ruolo educativo, ha la responsabilità di farsi portavoce di alcuni valori che possono aiutare a prevenire il bullismo, come promuovere la conoscenza reciproca, favorire l’autostima dei ragazzi, insegnare l’apertura verso la diversità e il rispetto degli altri, insegnare ad affrontare i conflitti invece di negarli, spiegare l’importanza del rispetto di regole di convivenza condivise, mettendole poi in pratica quotidianamente.

Riconoscere il bullismo non è sempre facile. Da parte di insegnanti e genitori sono necessari ascolto ed osservazione dei ragazzi.

Più il tempo passa, più i ruoli si definiscono e le conseguenze diventano dannose. Contro il bullismo si dovrebbero attivare sia la scuola che la famiglia: è importante che genitori e insegnanti comunichino tra loro e si metta in atto un intervento condiviso e coerente. Se un genitore ha il sospetto che il proprio figlio sia vittima o autore di episodi di bullismo, la prima cosa da fare è parlare e confrontarsi con gli insegnanti. Viceversa, se è un insegnante ad accorgersi di atti di bullismo, dovrebbe convocare i genitori, sia del bullo che della vittima, e organizzare insieme una strategia condivisa per porre fine alle prevaricazioni.

Allo stato attuale manca nel nostro Paese un investimento più consistente e una valutazione di questi progetti su larga scala così come è stato fatto in altri Paesi europei e occidentali.

Quello che bisogna ricordare è che il bullismo non è un gioco e non è una banale lite fra bambini, che i suoi meccanismi sono sfibranti perché reiterati nel tempo e spesso possono nascondere forti disagi anche da parte dei carnefici.

Tuttavia ciò non deve essere una giustificazione: una società che promuove una convivenza civile ha il dovere di stroncare sul nascere le prevaricazioni di sorta contribuendo alla formazione di soggetti consapevoli delle proprie possibilità e dei propri limiti, ma soprattutto deve pretendere di confrontarsi con ambienti scolastici e familiari pronti a sentirsi criticati e a mettersi in discussione senza riserve per il bene dei loro figli e di quelli degli altri.

Fonti: Telefono Azzurro, Wikipedia, Polizia di Stato.

Ulteriori informazioni: www.smontailbullo.it,

www.azzurro.it

www.poliziadistato.it

KARATE E ESORCISMI – QUESTA CI MANCAVA!

Frequentando l’ambiente delle palestre alla fine le vedi un po’ tutte: c’è chi pretende di sparire all’improvviso, chi propone tecniche di difesa improponibili, chi millanta quasi poteri sovrannaturali e chi con un po’ di impegno levita.

Non possiamo affermare che a questo si possa fare l’abitudine, ma alla fine ci si fa pace e lo si accetta come parte del folclore legato alle nostre discipline, lo potremmo definire amorevolmente “il ramo esoterico delle arti marziali”.

Ma negli Stati Uniti c’è chi ha fatto di meglio: le tre diciottenni Tess e Savannah Scherkenback e Brynne Larson si sono date all’Esorcismo Marziale.

Dopo essersi conosciute anni fa proprio ad un corso di Karate e aver conseguito il grado di cintura nera, hanno scoperto di avere in comune anche una fede molto spiccata.

E fin qui nulla di male, non fosse che il padre di Brynne, il reverendo Bob Larson, ha visto in loro qualcosa di più e le ha indirizzate verso l’esorcismo. Le tre ragazze si dicono entusiaste del ruolo che è stato loro proposto e che svolgono con insperata passione. D’altra parte, aggiungono, il fatto di poter prendere a calci in culo qualche demonio non solo le galvanizza ma le fa sentire utile anche alla riabilitazione di chi ha perso la via, considerato che per il reverendo Larson e la sua triade di esorciste a metà fra Buffy e le tre sorelle Halliwell, la prima causa di possessione demoniaca è dovuta al consumo di droga e alcool e, nel caso del Regno Unito, all’assidua lettura di Harry Potter.

Già: ma su questo vedremo di soprassedere.

Le ragazze e il reverendo prendono circa 200 dollari a esorcismo. Un’inezia di fronte a una vita di indicibili tormenti. Ma le domande arrivano proprio ora: come si svolge un esorcismo di questo genere?

Si prende a calci e pugni solo il demonio o anche il posseduto?

È consentito l’uso di protezioni oppure no?

È un uno contro uno o le tre ragazze agiscono insieme?

L’argomento risulta ancora fumoso.

Ora possiamo sinceramente affermare che ci mancano solo gli alieni e poi le abbiamo sentite proprio tutte.

Ma siamo fiduciosi su un prossimo incontro ravvicinato!

Fonti: BBC, Giornalettismo.

Per saperne di più e per capire che non è uno scherzo: http://www.teenageexorcists.com